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Immagine del redattoreLannaronca

I cappelletti tra scherzi e bontà



Famiglia Ugenti nel 1932

Capitava raramente che la mamma si lasciasse andare e mi raccontasse qualche episodio della sua infanzia, ma quando questo succedeva, sapeva essere molto divertente e appassionata.

Uno dei racconti che preferivo e che mi facevo raccontare spesso era la tradizione del "caplet pichent".

Quando la mamma era bambina viveva con la sua famiglia a Codroipo, un piccolissimo paesino del Friuli assieme ai suoi fratelli e sorelle, sei in tutto, e i suoi genitori.

Lavorava solo il nonno e quindi non c'erano grandi possibilità economiche, ma la vigilia di Natale, anche se c'erano pochi regali, si festeggiava sempre con la preparazione dei cappelletti da mangiare il giorno dopo.

La nonna Dirce, romagnola purosangue, dirigeva lo stuolo di aiutanti e ognuno dei sei fratelli aveva i propri compiti, lei preparava il batù la mattina presto, quando ancora non era sorto il sole e tutti dormivano, poi lo riponeva sul davanzale della finestra ben coperto. Nel pomeriggio quando si apprestava a fare la sfoglia, tutti lo capivano subito dai suoi gesti. Per prima cosa si metteva il grembiule bianco e si arrotolava le maniche fino al gomito. Diceva in dialetto tra sè e sè, ma abbastanza forte perché tutti la sentissero” Ragazzi mai fare i lavori con le mani sporche, non è mica un bel vedere!”. Per cui tutti correvano a lavarsi le mani.

Lei poi toglieva il tagliere dal sacchetto che lo proteggeva accuratamente, lo metteva sulla tavola e vi faceva sopra una bella montagna di farina. Faceva un buco nel mezzo girandovi dentro le mani e sollevando un lieve velo di polvere bianca. A breve quel buco avrebbe accolto le uova. Belle, gialle, quasi arancioni. Con la forchetta cominciava a sbatterle velocemente, contenendo con le mani la farina per non fare uscire il liquido e, in men che non si dica l’impasto era pronto. La palla giallo sole, veniva schiacciata dal mattarello e piano piano, prendeva forma. Si allargava sul tagliere, sotto le sue sapienti mani che la accarezzavano con gesti ritmati che coinvolgevano tutto il suo corpo fino a sollevarsi sulle punte dei piedi, perché la sua statura minuta le impediva di abbracciare tutto quel ben di Dio. Alla fine la sfoglia era pronta, bella, liscia e profumata.

Poi soddisfatta ammirava la sua opera prima di tagliarla in quadratini, al centro metteva una nocciolina di ripieno, i ragazzi provvedevano poi a chiudere i cappelletti e il nonno li riponeva nei vassoi, li contava e li metteva al fresco. Alla fine si preparavano gli 8 che si mangiavano subito prima della mezzanotte, rigorosamente bolliti nel brodo di cappone. Questi erano in assoluto i più belli e grossi di tutti, ma ...... Eh sì, c'era un ma, mentre riempiva questi cappelletti, la nonna metteva senza farsi vedere, una grande quantità di pepe in mezzo al ripieno di uno solo in modo che nessuno sapesse a chi sarebbe capitato!

Al momento dell'assaggio tutti si guardavano negli occhi con il tortellino bollente in bocca senza avere il coraggio di morderlo, e poi .... poi il cappelletto "pichènt" svelava il malcapitato che saltellando come un tarantolato correva al rubinetto della cucina per spegnere l'arsura tra le risate di tutti gli altri.


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