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Immagine del redattoreLannaronca

Il pane di Severina


Questa mattina molto presto, passeggiando per le stradine del mercato attorno a Via Pescherie Vecchie, mi sono bloccata di colpo: un profumo di pane fresco ha invaso le mie narici ed ha attivato di colpo un ricordo oltre che una prepotente salivazione.

Eh sì, il cibo è anche questo, profumo e il profumo evoca ricordi, luoghi, situazioni e soprattutto le persone lontane che questi luoghi e situazioni abitano.

Di colpo mi sono trovata catapultata nella cucina di mia suocera. I primi anni di matrimonio abitavamo nello stesso palazzo, allo stesso piano e mi accorgevo immediatamente quando faceva il pane dal profumo che invadeva il pianerottolo e si insinuava dentro casa. Con una scusa correvo a suonare il suo campanello e percorrevo il lungo corridoio fino alla cucina dove mi precipitavo ad assaggiarne una fetta ancora calda.

Qualche volta ero fortunata e arrivavo prima che cominciasse e allora mi sedevo comoda per godermi lo spettacolo.

Il suo pane era un paradiso di bontà, fragrante come una pasta sfoglia, con una bella crosticina in superficie, ma arrendevole sotto i denti, la sua ricetta era molto semplice: farina di grano tenero, lievito di birra, olio e latte. Finito.

Severina, così si chiamava, metteva la farina in una grossa ciotola d'acciaio, poi aggiungeva gli altri ingredienti, li lavorava finché l'olio non veniva assorbito e lasciava l'impasto friabile, a questo punto aggiungeva il latte tiepido dove aveva sciolto il lievito.

Poi raccoglieva tutto l'impasto con le mani e lo pressava sul vecchio tagliere di legno infarinato e appoggiato al tavolo da cucina. Lo stendeva fino a fargli assumere la forma di una grande pizza, poi lo lavorava alternativamente stendendo e ripiegando la sfoglia dell'impasto. Stendi e ripiega, stendi e ripiega, con movimenti sicuri e rapidi continuava a lavorare l'impasto e diceva "Vedi, è facile, cosa ci vuole? È quasi pronto". A questo punto, quando sicuramente le dolevano le braccia per il grande sforzo, si fermava, guardava la pasta, la raccoglieva in un panetto e la copriva come se fosse un bambino. Era il momento di riposarci e berci il caffè.

Ripeteva questa operazione almeno due volte e sempre dopo il raddoppio della pasta. Qualche volta andavo e venivo da casa mia alla sua, tutto il pomeriggio, finché non vedevo il prodotto finito. E finiva sempre così, noi due sedute in cucina a mangiare pane ancora caldo e a raccontarci, io le mie giornate a scuola e lei gli innumerevoli aneddoti su mio marito da piccolo.

Il pane è buono comunque e dovunque, in ogni forma. Io lo adoro e lo preferisco a molti alimenti, sì, lo ammetto: sono pane-dipendente. Purtroppo ai giorni nostri non se ne mangia più molto, complici gli snack, la dieta e i tanti spot pubblicitari, ora sembra che il pane sia gradito solo alla gente semplice, ma mi piace pensare che la gente semplice sia speciale .... a voi la conclusione!


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